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Vivere la benevolenza in famiglia

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Il termine “benevolenza” induce a pensare semplicemente alla bontà e, secondo la lingua italiana, non sbaglia perché i due termini sono presentati come sinonimi: entrambi infatti si riferiscono all’atteggiamento favorevole verso il prossimo.
In stretta armonia con questa definizione, la benevolenza è la disposizione interiore, frutto dello Spirito Santo, che ci porta ad essere sensibili ai bisogni degli altri, a vedere e a favorire il bene in ogni cosa ed in qualsiasi persona, mentre la bontà è associabile ai comportamenti conseguenti, frutto di volontà e di perseveranza personale, che hanno come obiettivo ultimo la realizzazione del bene come.
Per la nostra esperienza di vita, la benevolenza ci fa vedere Dio in ogni cosa e in ogni persona, poiché Lui è tutto e porta a dare se stessi senza misura e senza esigere ricompensa.
Tante volte ci è capitato di impiegare parecchio tempo per organizzare al meglio un incontro per il gruppo di AC, un’attività da condividere con gli altri o anche una semplice giornata di riposo e poi i nostri programmi sono stati scombussolati da chi ci vive vicino con una proposta tardiva e completamente diversa! A chi non è capitato, come a noi, di ritrovarsi a discutere per aver pronunciato una parola di troppo o di valutare con severità l’operato della persona accanto. In questi momenti vengono fuori, prepotentemente e inaspettatamente, comportamenti tutt’altro che benevoli.
Quanto è facile, nei momenti di rabbia e di incomprensione, addossare all’altro il peso delle tante fatiche che si compiono, delle responsabilità, dei doveri propri: quindi si discute, si alza la voce e infine ci si isola, soffocando così la benevolenza. Questa solitudine, però, possiamo viverla nel raccoglimento e nella preghiera, ed è così che dal profondo del cuore riaffiora la benevolenza, la voglia di andare incontro all’altro e di riappacificarsi. Perché, se Dio trova sempre qualcosa di bello in noi e nelle nostre debolezze, non possiamo essere certo noi a continuare a voler vedere i difetti del nostro coniuge o dei nostri figli e a farne un dramma. L’esercizio della virtù della benevolenza ci porterà a vedere il comportamento dei nostri familiari come una potenzialità per riuscire ad affrontare un problema con un diverso punto di vista. Così ci riavviciniamo gli uni gli altri ed il riavvicinarsi rende felice chi fa il primo passo e ancor di più chi lo accoglie.
Tale esperienza di reciprocità, di accoglienza e di condivisione ci porta ad essere consapevolmente testimoni (e non padroni) verso i figli. La genitorialità, da noi vissuta con fatica e sacrificio, è stata ed è scuola di vita. Per un genitore desiderare il bene di un figlio è la cosa più ovvia e scontata, ma non è scontato il metodo.
Vivere la benevolenza genitoriale è soprattutto saper essere affianco. Desiderare il bene dei figli non vuol dire riflettere le proprie personali aspirazioni e vederle realizzate in loro, ma saper accompagnarli nel discernimento con il pieno rispetto della loro libertà. Desiderare il loro bene vuol dire anche saper accettarne gli errori e le scelte non condivise, ma con la garanzia di ritrovarci al loro fianco sempre.
Questo costituisce per noi la personale esperienza di vita familiare per la quale ringraziamo Dio e l’intera famiglia.
Santa Benevolenza scuotici, illuminaci, spalancaci le braccia, aiutaci ad amare l’altro nonostante tutto e al di sopra di ogni giudizio.

Alfonsina De Marco e Claudio Aiello


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