“Ogni anno il 19 marzo c’è l’usanza per San Giuseppe di festeggiare i paparini.
Ognuno adda mangià la zeppolina, ognuno adda purtà i cioccolatini”
Ho voluto scomodare e torturare il primo verso della nota poesia di Totò, non solo per uscire dalla sindrome del primo rigo, ma anche per iniziare a “rappresentare” quanto sia difficile essere festeggiati come padri, avendo come esempio non un santo qualsiasi, non un papà qualsiasi, ma un “superpapà” come San Giuseppe. Dopo aver chiamato in causa Totò, osare mettere il prefisso “super” a San Giuseppe, può sembrare la seconda cosa ardita che faccio in poche righe, ma in realtà è proprio l’intento di questo mio articolo, osservare quanto il papà terreno di Gesù sia una figura molto vicina a noi papà “normali” degli anni duemila, tanto da poter avere anche lui stesso una connotazione da supereroe, la stessa che tanti figli di oggi associano ai loro papà, così da pensare che tante cose che accadono a noi, siano accadute anche a lui.
Nell’immaginario comune San Giuseppe, partendo dal presepio, appare come un personaggio importante, ma non centrale; se parlassimo di un film anziché di un presepio, potrebbe essere il destinatario dell’oscar come miglior attore non protagonista, quindi il migliore, ma non il protagonista. Anche nelle famiglie di oggi, noi papà, sebbene ci fregiamo del titolo formale di “capofamiglia”, abbiamo un ruolo centrale, ma secondario. Questa precisazione non l’ho fatta per sminuire i papà, ma prima di parlare di loro (di noi), mi sembra legittimo, anzi, naturale, riconoscere alle mamme, per restare nella metafora cinematografica, il loro ruolo di prime attrici nelle famiglie, non fosse altro che per quei nove mesi che fanno la differenza tra un papà ed una mamma.
Torniamo al presepe, innanzitutto perché quello è sicuramente il primo punto di incontro di tutti con San Giuseppe, ma nel mio caso in particolare è stato anche il centro di un divertente equivoco, in cui la similitudine tra me e il santo di oggi fu proprio piena. Ho sempre amato fare i presepi fin da ragazzo ed ho sempre avuto la libertà da parte dei miei genitori di lucrare spazio alla casa per realizzarlo. Tuttavia, dopo essermi sposato, avendo casa “mia”, volevo fare un ulteriore passo in avanti: perfezionare la tecnica e realizzare una struttura in legno. Questo comportò diverse settimane di lavoro nel soggiorno di casa, dando forma ad una struttura lignea, che poi sarebbe diventata lo scheletro del presepio. In quel periodo la mia primogenita fece un tema a scuola sulla famiglia; raccontò che il suo papà di lavoro faceva il falegname, per poi correggersi, dicendo che costruivo presepi. A parte l’aspetto ilare della situazione, la similitudine con San Giuseppe mi colpì e mi fece riflettere, una figura così importante e lontana da me, eppure c’era qualcosa in comune.
L’immaginario comune, derivato probabilmente solamente dalle statuine del presepio, rappresenta San Giuseppe, usando un’ultima volta la metafora cinematografica, addirittura come uno spettatore della sua famiglia, ma così non fu.
La sua vita in famiglia fu vera e partecipata; forse non insegnò a Gesù ad andare in bicicletta, solo perché non esisteva ancora, ma tutte le altre cose “da papà” le fece.
Sicuramente lo tenne per mano quando fece i primi passi, gli insegnò a parlare e tutto ciò che i genitori fanno per i figli, l’ha fatto anche lui. Tra le tante, io ho sempre immaginato che abbia insegnato a Gesù a lavorare il legno, ma forse, prima ancora di usarlo per lavoro, San Giuseppe costruì i giocattoli per Gesù, perché sicuramente anche i bambini di duemila anni fa giocavano, proprio come tutti noi. Magari un giorno proprio giocando con qualche amico, il bambino Gesù, mostrando con (sano) orgoglio un giocattolo costruito dal padre avrà detto “il mio papà è super” quando costruisce i giochi, e non solo.
Chi sa che papà era, se ad esempio sapeva anche cucinare o era totalmente incapace in cucina come me, se amava raccontare storielle al figlio o preferiva fargli fare i giochi all’aperto, se amava la montagna o il mare; di certo gli piaceva viaggiare, non fosse altro che per i noti episodi, che fin dalla nascita del figlio lo costrinsero a cambiare città.
Mi ha sempre colpito il fatto che San Giuseppe fosse proprio falegname, tra tanti mestieri, proprio questo, un lavoro umile con una materia viva, che va forgiata e che poi , però, va affidata ad altre persone. Un po’ come coi figli: li aiutiamo a crescere, a stare in piedi, si trasformano, così come un pezzo di legno che diventa una sedia, capace di stare dritta da sola, anche i nostri figli da bambini un giorno si trasformano e diventano adulti, capaci di stare dritti, e nel loro caso, di andare per la loro strada.
Quante volte San Giuseppe, più di qualsiasi altro genitore, avrà pensato a quanto sarebbe stato duro, lasciare andare il figlio, e forse avrebbe preferito tenerlo in famiglia “ancora un po’”, ma poi ha capito che avrebbe dovuto lasciarlo andare.
Questo dovrebbe essere sicuramente il più importante dei superpoteri che un superpapà dovrebbe avere: capire che i figli ci sono affidati, ma poi dobbiamo lasciarli andare, e non parlo solo del momento in cui fisicamente lasciano casa, ma anche prima, quando iniziano ad essere “pensanti”. Vanno guidati, ma “lasciati” crescere, vanno amati, ma lasciati liberi.
In ogni caso, il vero superpotere che San Giuseppe aveva, era quello di essere normale, come tutti noi; egli non si è posto troppe domande, si è fidato di Dio, come uomo e come papà.
Questo è l’augurio che faccio a tutti noi papà, conservare nell’ordinarietà la normalità di San Giuseppe. Lui è diventato santo… e noi?
Donato Ferrara